Eugenio Scorzelli. Una pittura che si nutre di luce

Eugenio Scorzelli. Una pittura che si nutre di luce

 

 

La Raccolta Lercaro inaugura la stagione espositiva 2015-2016 rendendo fruibile al pubblico un interessante corpus di opere di Eugenio Scorzelli (1890-1960), pittore nato a Buenos Aires sul finire del XIX secolo ma formatosi tra Napoli, Parigi, Londra e Bruxelles.

Si tratta di quindici dipinti – tutti oli su tela – realizzati dall’artista nell’ultimo ventennio della sua vita, tra il 1940 e il 1960, e che, entrati a far parte della collezione permanente del museo nel corso degli anni Novanta, sono stati esposti solo in poche occasioni. Oggi la Raccolta Lercaro apre, come uno scrigno, il proprio deposito e, come si fa con i tesori di famiglia, svela con cura e discrezione questa interessantissima collezione, nell’auspicio che l’esposizione possa rappresentare una finestra aperta sull’opera e sulla pittura colma di luce di Eugenio Scorzelli.

Negli anni della maturità, dal 1935 in poi, Scorzelli è un pittore appartato, discreto, non desideroso di particolari riconoscimenti se non quelli delle persone che stima e alle quali è legato da vincoli di affetto.

Nonostante i viaggi frequenti e la necessità di soggiorno a Milano durante il periodo di insegnamento a Brera, per lui ciò che più rappresenta la stabilità è la casa napoletana di via Salvator Rosa, con le persiane socchiuse, la sua intimità, gli affetti costanti e sereni che ne animano lo spazio e la vita familiare.

La sua ricerca artistica, formata sulla migliore pittura napoletana di tradizione, dalla metà degli anni Trenta si trasforma sotto l’impulso derivato dallo studio della pittura francese, in particolare di Corot e De Nittis.

Ma più che gli scorci giovanili del paesaggio francese o londinese, più che i tetti “en plein air” colti dalla finestra del suo studio, ciò che colpisce nella pittura di Eugenio sono gli interni, spesso segnati dalla fuga delle stanze una dentro l’altra, gli angoli silenziosi dello studio o i balconi affacciati su un cortile inondato dalla luce bianca del mezzogiorno napoletano. Non scene ritratte con un semplice intento di rappresentazione, ma immagini degli affetti, spazi vibranti di vissuto e trasformati in ambienti vivi.

È una pittura nata dalle immagini e dai suoni lievi che caratterizzano l’ora più calda del giorno – quella del primo pomeriggio – quando uomini e cose sostano e, respirando piano, riprendono fiato come per sopportare meglio l’intensità della luce e del calore che, all’esterno, tutto inghiotte. È anche il momento della solitudine e del silenzio, inteso non come distacco e isolamento, ma come istante di profonda intimità con se stessi e con gli affetti. Generalmente, infatti, Scorzelli non dipinge scene affollate, ma ritrae il momento in cui le persone amate – la madre, la moglie, il figlio – sono assorte in un personale tempo di riflessione, cogliendo ciascuno nella propria specifica identità. Quasi a sottolineare il valore assoluto di ogni uomo come “persona”, individuo unico e inimitabile.

 

Eugenio Scorzelli nasce a Buenos Aires il 15 aprile 1890.

Nel 1909, a diciannove anni, torna in Italia e si iscrive ai corsi dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove studia pittura sotto la guida di Vincenzo Volpe e Michele Cammarano e frequenta l’ambiente culturale del caffè Gambrinus, luogo di incontro degli intellettuali napoletani.

Negli anni Venti ritorna in Argentina, dove espone con successo e guadagna il necessario per poter intraprendere una serie di viaggi studio in Europa: inizia così un lungo periodo di soggiorni all’estero – in particolare a Londra, Parigi e Bruxelles – durante il quale entra in contatto con diverse esperienze artistiche che lo segnano profondamente (dalla conoscenza diretta della pittura di Rembrandt a quella più moderna di Corot e De Nittis).

Nel 1937 Carlo Siviero lo chiama all’Accademia di Brera come assistente alla cattedra di Pittura, incarico che conserverà per quindici anni, affiancandovi però, e proseguendo per tutta la vita, la sua personale ricerca artistica.

Muore a Napoli nel 1958.

Fin dai primi lavori, influenzati dall’art noveau, Scorzelli va già maturando quella che sarà una costante lungo tutta la sua produzione artistica: l’interesse per gli effetti determinati dal contrasto luce/ombra, che si tradurrà in una pittura sempre attenta al dato cromatico.

Negli anni Trenta, la pennellata di colore si struttura all’interno di un impianto compositivo ben definito: non è una pennellata libera, bensì guidata dalla mano dell’artista che, avvicinandosi alle posizioni “novecentiste”, ricerca un equilibrio tra la costruzione salda dei volumi e l’atmosfera della scena.

Dalla fine del decennio in poi, in quello che sarà il periodo della maturità artistica, Eugenio approda invece a una pittura più libera, meno sorvegliata dal punto di vista compositivo, ma ancor più centrata sul dato cromatico: una pittura “sensibilista”, affidata all’immediatezza dell’impressione e alla vitalità del colore, secondo il modello postimpressionista studiato a Parigi e poi rielaborato alla  luce della propria personale percezione, nel solco della tradizione napoletana.

Soprattutto in questi anni, dal 1935 in poi, Scorzelli è un pittore appartato, discreto, non desideroso di particolari riconoscimenti se non quelli, ambitissimi, delle persone che stima e alle quali è legato da vincoli di affetto e vita condivisa.

Nonostante i viaggi frequenti e la necessità di soggiorno a Milano durante il periodo di insegnamento a Brera, per lui ciò che più ha rappresentato la stabilità è stata la casa napoletana di via Salvator Rosa, con le persiane socchiuse, la sua intimità, gli affetti costanti e sereni che ne hanno animato lo spazio e la vita familiare.

Nel 1990, a cento anni dalla nascita, il figlio Lello – anch’egli artista, vicinissimo a papa Paolo VI e al cardinale Giacomo Lercaro – ha voluto dedicargli una mostra retrospettiva, affidandone la cura critica a Raffaele De Grada, conosciuto da Eugenio durante gli anni milanesi.

In quell’occasione, De Grada ha tracciato un profilo artistico di Eugenio Scorzelli che riconduce la sua pittura a una consapevole filiazione dalla migliore pittura napoletana di tradizione e individua la “profonda trasformazione che la scelta francese [in particolare lo studio di Corot] operò sulla sua arte”, in particolare nel periodo di massima ricerca, tra il 1935 e il 1940.

Ma più che i suoi scorci giovanili delle strade di Londra o del porto di Dunkerque, più che le desolate e desolanti periferie napoletane o i tetti “en plein air” colti dalla finestra dello studio, ciò che colpisce nella pittura di Eugenio sono gli interni, spesso segnati dalla fuga delle stanze una dentro l’altra, gli angoli silenziosi dello studio o i balconi affacciati su un cortile inondato dalla luce bianca del mezzogiorno napoletano.

Non scene ritratte con un semplice intento di rappresentazione, ma immagini degli affetti, spazi vibranti di vissuto e trasformati in ambienti vivi.

Tre sono i tagli, i punti di vista scelti dal pittore in questa visione del quotidiano: l’affollarsi di tele, cornici e modelli in un angolo prospetticamente scorciato del suo atelier (spesso includendo anche elementi non specificamente legati all’attività pittorica, come una poltrona o una chitarra); il rincorrersi di luce e ombra nei corridoi, sulle pareti, sui pavimenti, tra una porta e l’altra; il rapporto tra interno ed esterno creato attraverso una finestra che si apre sui tetti o da un balcone che lascia entrare la luce piena in interni avvolti, per contrasto, da una penombra ovattata. È una pittura nata dalle immagini e dai suoni lievi che caratterizzano l’ora più calda del giorno – quella del primo pomeriggio – quando uomini e cose sostano e, respirando piano, riprendono fiato come per sopportare meglio l’intensità della luce e del calore che, all’esterno, fuori da quelle stanze fresche e semibuie, tutto inghiotte.

È anche il momento della solitudine e del silenzio, inteso non come distacco e isolamento, ma come istante di profonda intimità con se stessi e con gli affetti. Generalmente, infatti, Scorzelli non dipinge scene affollate, ma ritrae il momento in cui le persone amate – la madre, la moglie, il figlio, le cognate – sono assorte in un personale tempo di riflessione, cogliendo ciascuno nella propria specifica identità. Quasi a sottolineare il valore assoluto di ogni uomo come “persona”, individuo unico e inimitabile.